Debito pubblico: l'esempio islandese


Ho approfondito questo avvenimento grazie alla lettura di “Rivoluzione non autorizzata” di Marco Pizzuti, “Edizioni il punto d’incontro”.


Prima del 2008 l’Islanda era il quinto paese del mondo per reddito pro capite, per bassa disoccupazione e per un’ottima diffusione del benessere. Ma nel 2001 si ritrovò ad affrontare un serio problema causato dal processo di privatizzazione dei principali istituti di credito. Dal 2003 tutte le banche islandesi furono acquisite da banchieri privati che concedevano facilmente prestiti alle famiglie. Così i banchieri iniziarono a costruire delle finte aziende nei paradisi fiscali e ad utilizzare il loro denaro “gonfiato” come una garanzia per ricevere ulteriore denaro da investire. In sostanza, un sistema economico destinato a collassare.


Quando ormai la situazione divenne critica, l’allora presidente Geir Haarde chiese un primo prestito al FMI (Fondo Monetario Internazionale) di 2 miliardi e 100 milioni di dollari per effettuare una parziale nazionalizzazione di alcune banche; il secondo prestito era pari a circa 8 miliardi di dollari che doveva essere poi restituito ai principali investitori (inglesi ed olandesi). Il FMI approvò. La reazione del popolo islandese fu immediata, anche se i principali media non riportarono nulla. Gli islandesi non avevano intenzione di pagare il debito delle banche con i soldi pubblici: quindi organizzarono proteste di massa e migliaia di persone scesero in piazza contro il governo ed occuparono il parlamento per settimane. Haarde rassegnò le proprie dimissioni e il 25 Aprile del 2009 vennero indette le nuove elezioni che furono vinte da Johanna Sigurdardottir, la quale si impegnò da subito a restituire a Gran Bretagna e Olanda più di 4 miliardi di dollari promettendo ai cittadini di legare l’importo dei rimborsi al tasso di crescita economica dell’Islanda. Ma invece chiese un altro prestito al FMI e fece approvare in parlamento una legge che vincolava i cittadini al pagamento del debito delle banche. Tuttavia, il capo di stato Olafur Ragnar Grimsson non ratificò la legge e venne così indetto un referendum: il 93% della popolazione votò contro il pagamento del debito straniero. Nel 2011 Sigurdardottir indisse un secondo referendum, ma il governo venne sconfitto nuovamente.
Da quel momento in poi, l’economia dell’Islanda ha continuato a crescere, fino ad arrivare a un +3% de l PIL nel 2012 e ad un abbattimento del tasso di disoccupazione.

Ora mi chiedo, per quanto tutti gli stati esistenti su questo pianeta possano adottare sistemi economici diversi, possedere culture diverse e porsi obiettivi diversi: perché in tutti gli altri governi democratici (oppure a questo punto dovrei dire “pseudodemocratici) questo non avviene? Il problema è dei cittadini pigri o degli stessi governi? Oppure il vero problema deriva dalla non conoscenza del vero concetto di debito pubblico, e cioè che in realtà ormai ci troviamo in una condizione in cui saldare il conto è praticamente impossibile? Argomenterò questo problema nel prossimo post.

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